Per Renzi il rebus della bad bank

Tra i temi che il neonato governo Renzi dovrà affrontare ci si è dimenticati quello della creazione di una Bad bank dove far confluire i crediti in difficoltà delle banche italiane.

Si tratta di crediti di varia origine tra cui quelli che le famiglie e le aziende non sono più in grado di onorare viaggiano a quota 156 miliardi di euro su un totale di circa 300 miliardi di crediti deteriorati, e tra cui i finanziamenti legati all'immobiliare hanno un peso importante.

L'esigenza di trovare una rapida soluzione al problema dipende, oltre al resto, dal fatto che a breve, e comunque entro l'anno, la Banca centrale europea sottoporrà gli istituti di credito dell'Euroarea a una nuova tornata di stress test.

Di esami, cioè, sulla solidità delle banche europee.

L'obiettivo della Bce è di avere un quadro preciso del sistema bancario continentale in vista dell'acquisizione delle funzioni di vigilanza.

E le banche italiane, che non lo hanno fatto in precedenza, hanno un grande bisogno di dare una bella ripulita ai bilanci.

Che il problema sia sentito lo testimonia il fatto che, da Sidney per il G20, il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, sia tornato sul tema.

Secondo Visco una possibile soluzione è la creazione di una Bad bank sulla falsariga di quanto avvenuto in Spagna e Irlanda, e perciò con garanzia dello Stato.

Nelle scorse settimane, poco prima di essere costretto a lasciare la poltrona, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni si era invece espresso contro l'ipotesi di un sostegno pubblico alla creazione della Bad bank.

La discriminante è sostanzialmente il prezzo cui gli istituti sono disposti a cedere questi asset deteriorati.

E quindi che perdita in conto capitale siano disposti ad accettare, con gli eventuali strascichi in necessità di ricapitalizzazione.

Con garanzia pubblica, tanto per essere chiari, il prezzo sarebbe più alto di quello di mercato.

E quindi sarebbero minori le eventuali difficoltà di tenuta patrimoniale per gli istituti.

Che un sistema bancario ordinato, solido, e ben funzionante sia una necessità per un sistema economico altrettanto solido e ben funzionante è una banalità.

Lo è meno il fatto che il fallimento di una banca, tanto meno di un sistema bancario, non è un evento neutrale.

In primo luogo per i correntisti della banca in default.

Se da un lato l'eventuale soccorso pubblico alle banche in difficoltà è positivo in quanto evita problemi maggiori per tutta la comunità del Paese, dall'altro ciò si scontra con quello che viene definito moral hazard.

Ossia i banchieri potrebbero assumersi rischi eccessivi rispetto alla patrimonializzazione dell'istituto, sostanzialmente per assicurarsi super bonus e super stipendi personali, contando sul fatto che, nella peggiore delle ipotesi, l'intervento dello stato li toglierà dagli impicci evitando un eventuale fallimento.

Questo è sostanzialmente avvenuto nelle banche anglosassoni (e anche europee continentali) durante il rigonfiamento della bolla subprime e il successivo sboom.

Oppure, altra versione del moral hazard, i banchieri possono decidere di rimandare ad libitum il momento di intervenire per ripulire bilanci pieni di “spazzatura” per evitare problemi agli azionisti di riferimento.

Che sono poi coloro che votano i membri dei consigli di amministrazione.

Nel caso, infatti, che le perdite potenziali diventino insostenibili si confida nell'intervento dello Stato che tenga in piedi la baracca lasciando invariati i rapporti di forza tra azionisti.

In Italia, per esempio, sono poche le fondazioni bancarie che potrebbero permettersi di partecipare ad aumenti di capitale necessari per la stabilità degli istituti controllati, mentre sono ancora meno quelle disposte a perdere la presa sugli istituti controllati pur non disponendo di mezzi per rimanere con le redini in mano.
monitorimmobiliare di Guglielmo Notari